Sono un tubero
anch’io,
non mi prospetto felicità scontate,
amore futuro, padelle o braci,
baci:
ti aspetto al buio,
per non germogliare.
Mi sento
inerme bionda, tutta buccia, soda e
levigata, letargica, dissotterrata.
Qui è tutta un’attesa di nutrirti
o di marcire.
Beatrice Zerbini
Da Le patate (dal libro In comode rate. Poesie d’amore)
Non mi tolga
tutto il lutto,
dottoressa,
me ne lasci la metà;
io non voglio che il mio cuore
sia sgombro per intero,
mi lasci la mancanza:
faccia male di notte,
se non dormo, ma se dormo,
se possibile, vorrei
non svegliarmi nel buio,
come se
non potessi respirare.
Mi tolga
l’impossibile che è che non si possa
più ascoltare la sua voce
e lo squillo del telefono mai suo
quando compio un altro anno
e non vorrei.
Mi lasci continuare
a guardare fissamente
se qualcuno beve
il caffè nel vetro
e faccia che io pianga
sulla torta di riso;
mi tolga il grido, se può,
la testa che sbatte,
il nero che fa
la fine.
Non mi resta che
la mancanza che è:
e se è il dolore che riempie
come un corpo
il mio corpo,
me lo lasci per metà.
Non voglio perdere
che ferisca
la lama che non taglia dei suoi occhi;
Tolga il lutto che inginocchia,
che non crede, che mi chiude
in casa.
Mi lasci che mi facciano
male i fiori,
ma non tutti,
solo quelli arancioni.
Beatrice Zerbini
(dal libro D’amore)
Recensione di Alberto Bertoni a In comode rate, uscita su Poesia (Crocetti, aprile 2020):
<<Gli esordi, in poesia come in ogni altra attività umana, possono essere incerti o promettenti, claudicanti o sicuri, ma è difficile che siano originali. Anche il grande trottatore Varenne all’esordio ruppe per due volte l’andatura e finì squalificato. Il libro d’esordio della trentasettenne bolognese Beatrice Zerbini – fin qui del tutto sconosciuta alle molte associazioni e iniziative poetiche che punteggiano da sempre la vita letteraria del capoluogo emiliano – contraddice invece a questa constatazione, dal momento che propone una scrittura e una modalità intonativa del tutto originali, davvero soltanto sue. Il dato, pur incontrovertibile, sorprende un bel po’, sia perché gli echi sparsi di Palazzeschi, di Gozzano e dell’ultimo Caproni (quello cacciato e cacciatore di Dio) sono talmente esposti – quando affiorano – da assumere la valenza di un controcanto parodico, che si sprigiona per accensioni spontanee, non preparate al tavolino di una poetica decisa a priori; sia perché la dominante tematica è quella per antonomasia più esposta ai rischi del “poetese”, coincidendo col topos d’amore: uno dei due limiti – assieme alla morte – di cui la poesia occidentale si fa carico da sempre.
Quello raccontato e ritmato da Beatrice Zerbini, nel suo notevole In comode rate, è tuttavia un amore non psicologico, non aneddotico e quasi per nulla autobiografico, bensì religioso, tanto che non si percepisce sempre se il Tu amante/amato/a sia un’altra persona o lo spirito divino emanato da un catechismo introiettato da bambina o ancora il Tu allo stesso tempo presente/assente di un albero genealogico terremotato e interrotto (forse tutte e tre le cose insieme). Un simile meccanismo di “contradizion che nol consente” può scattare solo perché l’energia entropica, motore insieme di gioia e di dolore portati all’estremo, che nutre la vena profonda del libro spinge la sua raffinatissima tessitura metrica, prosodica e verbale fino a una sorta di oltranza liturgica della cui valenza e della cui potenza ci si rende conto appieno solo a lettura terminata. Questo atteggiamento e questa originalità producono almeno due conseguenze che agiscono da ingredienti di base della ricetta cucinata con molto acume e altrettanta passione elocutiva dall’autrice. La prima coinvolge la linearità degli enunciati: in modo non esposto, ma quasi felpato, non è infrequente che Zerbini prepari delle premesse di tipo narrativo cui però non corrisponde una conclusione consequenziale: e su questo il modello più a portata di mano risiede nei monologhi dell’intensissimo attore/autore pure bolognese Alessandro Bergonzoni. Il principio di causa e di effetto è minato alla base, ma con tocco felino, quasi inavvertibile, se non si è molto concentrati nella lettura. Si pensi a un effetto di puro straniamento come questo, in incipit: “Io provo dolcezza, per te/ e attesa; provo mele/ (le renette),/ nel cestino/ in midollino,/ e ronzio/ di biciclette…”
Evocando le fantasmagorie verbali di Bergonzoni, è automatico soffermarsi sull’altra più evidente marca linguistica (ma d’ordine lessicale, non più sintattico-narrativo): quella dell’autonomia in atto di un significante che si sovrappone (e non di rado contraddice) al logos degli enunciati. Ed è un’autonomia dagli esiti preziosi, rinfrescanti, lacaniani davvero e dunque stranianti come pochi se ne leggono nella poesia di oggi. Paronomasie, derivazioni, omologie prefissali e suffissali, figure etimologiche (vere e false), allitterazioni à gogo… Zerbini non si nega nulla in materia ed è tanto ammaliata da questi suoi intarsi e ricami verbali (nonché prosodico-metrici, con predilezione per versi brevi e scattanti tra quinario e novenario, mentre in certi passaggi dell’ultima parte c’è un intercalare contrastivo e sapiente affidato all’endecasillabo), da sacrificare a questo gusto ogni traccia di architettura subordinativa e da sciorinare un gusto elencatorio che elegge a generale dominante l’asindeto. E si presti allora ascolto, in clausola, a questa felicissima “maledizione”, per la quale occorrerà forse scomodare un gran poeta medievale come Cecco Angiolieri: “Maledette surfinie,/ maledetto frenare,/ maledetto fermare, guardare, aspettare,// maledetti i balconi,/ le terrazze,/ i terrazzi,/ maledette le tende,/ che si scostano/ o forse/ fremono, frullano, tremano,/ gonfiano…”>>
Di noi
la parte migliore
sei tu.
Tu sei la parte
che pazienta,
che ascolta,
che cura,
la parte che annaffia,
che conta fino a dieci,
che conta,
che bacia la mia guancia in foto.
La tua parte è la migliore fra noi,
la tua parte è per intero,
è un intero,
è viva, e mi ama davvero,
la tua parte fa rima
con il meglio di me;
la tua parte accetta,
rispetta,
mi spoglia se dormo vestita,
mi investe del vanto
di essere amata
dal meglio di noi,
da te.
Beatrice Zerbini
(dal libro In comode rate. Poesie d’amore)
<< Ed ecco che spunta Beatrice Zerbini con una voce unica, nuova, ironica e profonda, che fa dell’amore ancora il campo conoscitivo di base” – Alba Donati
<< L’autrice Beatrice Zerbini dice di perdere tutto, ma non perde mai la bussola della sua schietta sensibilità poetica>> – Vittorino Curci (Repubblica Bari, 5 luglio 2019)
Ogni giorno,
perdo tutto
e tu con me
e te;
e si sfuocano
le colazioni,
si induriscono
i biscotti al burro;
perdo il quadro
che ride e vive,
la cornice delle tende,
le verità stupende
che non ho detto e
la stupidità
di avere paura.
Perdo tutto, ogni giorno;
la pelle nuova,
la ruga che ho sorriso,
la ruga che ho pianto,
la voce,
la mia e la tua,
il coro che sono,
l’assolo.
Perdo parole
che avremmo potuto dirci,
non dirci,
dire meglio.
Perdo possibilità
e una possibilità,
il ritmo del respiro,
la pazienza,
le sementi di un’idea.
E perdo le facce degli altri
in strada,
la mia su una vetrina buia.
Ogni giorno perdo
uno scorcio
carico di sole,
e la mia età
salda,
che mi ancora alla terra
come un macigno
o una nascita,
che mi seduce
e trascina,
che tracima;
perdo la speranza che
esonda sulla mia fretta,
sulla mia calma.
Perdo
il miracolo di un giorno,
l’elemosina del tempo,
lo scialacquio degli attimi,
con la risacca magra
di qualche
felicità.
Ogni giorno perdo tutto:
il significato,
la velleità del buio
e gli abbagli,
la vastità sul bivio
e l’ombra lunga
degli sbagli,
le rime,
le rime per te,
l’amore,
la bambina che crede,
la bambina in cui credi,
e un’ansia del petto
che può fremere
e domandare
e guardare
e regnare ogni giorno,
mentre perde.
E perde tutto.
Perdo giurisdizione
ed emozione;
si consuma,
si annebbia,
sbraita come un fumo
la mia vita,
che ogni giorno perde me,
mentre perdo tutto.
Perdo il timpano dolce
sotto le voci affettive
che sono un’ala,
a curarmi,
o macerie.
Ogni giorno,
poi,
mi sveglio –
se mi sveglio –
e tutto,
tranne te
e tu con me,
ritrovo.
Beatrice Zerbini
(dal libro In comode rate. Poesie d’Amore)